L'ALIENA
di Mario Rega
"Proviamo tra la gente."
Elizabeth guardava di sottecchi i suoi amici dimenarsi sulla pista da ballo, sudati e ognuno con un proprio ritmo. Non le piaceva ballare né tantomeno andare in discoteca ma quella sera, dopo l'ennesimo rifiuto, dovette cedere al volere delle sue amiche. Seduta in disparte per evitare che qualcuno potesse notarla, si nascondeva rannicchiata su se stessa nel malaugurato caso qualcuno pensasse di trascinarla al centro della pista.
Elizabeth o Lizzy come preferiva farsi chiamare è una ragazza per certi aspetti simile alle sue coetanee eppure profondamente diversa. Ha le lentiggini sul viso, un piccolo tatuaggio di un delfino e le paure di ogni adolescente. Ha quindici anni, un gatto, la voglia di essere una stella e nasconde un incredibile segreto. Quella sera ne era pienamente consapevole. Sentirsi di un altro mondo, in un luogo a lei totalmente ostile, le fece comprendere ancora di più che lo era: diversa.
"Induciamola in confusione."
Le sue amiche sembravano divertirsi spensierate e lei, invece, osservava la gente che la circondava con strani pensieri nella testa: si domandava chi di loro, in un altro tempo, fosse stato nello stesso identico luogo in cui si trovava lei. Magari al cinema oppure al supermercato. Si domandava chi di loro avesse una vita realmente felice, quanti di loro spegnevano l'interruttore della luce tre volte prima di andare a letto e quanti avrebbero voluto essere, come lei, altrove. Paure, domande e nessuna risposta. Eppure Lizzy, nonostante avesse vissuto gran parte delle esperienze delle sue coetanee, sapeva di essere diversa. Non le piaceva ballare ed era un extraterrestre.
Continuava a domandarsi il motivo della sua presenza sulla terra e perché questo strano popolo, dall'aspetto simile al suo, l'avesse rapita quand'era piccola senza però condurre mai esperimenti su di lei. "Forse sarebbe finalmente accaduto più tardi?" Si chiedeva. "Magari dopo un 'vero' drink." Sorrise. Aspettava con ansia che quel posto si trasformasse in un laboratorio tecnologico, a quando i muri si sarebbero aperti facendo posto alle fredde pareti d'acciaio della struttura. Gli "altri" si sarebbero strappati la pelle che indossavano come una tuta per mostrare il loro vero aspetto. Avrebbe voluto succedesse per davvero perché il tempo oramai sembrava non passare mai e fino a quando qualcuno dei suoi amici non si fosse deciso ad andare via, lei avrebbe consumato altri quattro succhi di frutta e sarebbe andata al bagno ancora cinque milioni di volte.
«Anche tu un'aliena?»
Lizzy si girò di scatto, sbiancando in volto e sentendosi le gambe molli.
«Come? Scusa?»
Il ragazzo con lo sguardo serio e dalle sopracciglia aggrottate era l'unico, oltre lei naturalmente, a non avere la t-shirt intrisa di sudore.
«Dicevo, anche tu sei un'aliena qui?»
«Non è il genere di posto in cui mi piace essere.» rispose senza togliersi la cannuccia dalle labbra.
«Scommetto che avresti preferito di gran lunga restare a casa a leggere un libro o vedere un film per la tv. Di quelli che parlano delle catastrofi globali magari...»
«Oh, mamma! Certo che no.» Ribatté raddrizzando la schiena sullo sgabello. «Tuttalpiù una commedia o un film romantico.» Aggiunse, mentendo spudoratamente.
Adorava i film catastrofici. Ripensò alla settimana scorsa quando ne aveva visto uno in cui il nucleo della terra aveva smesso di girare minacciando l'inversione dei poli magnetici. Che idiozia di film, confessò. Eppure le piacque.
«Mi chiamo David.» Sorrise porgendole la mano.
«Pamela, ciao.»
Non era granché come nome ma fu il primo che le venne in mente.
Pensò che David, casomai fosse stato davvero il suo vero nome, era carino. Aveva i capelli castani e gli occhi verdi. Forse un po' troppo magro ma il fatto che fosse anche lui un alieno, per quanto terrestre, gli fece acquistare una sorta di punteggio.
Restarono a parlare per qualche minuto, nonostante la difficoltà causata dalla musica ad alto volume. Lizzy mentì spudoratamente altre quattordici volte. Lui soltanto una.
"Riduciamo la feniletilamina."
Raccontò essere di Charlotte e che le piacevano i cavalli. Giurò di saper suonare il pianoforte, di aver portato la macchinetta per i denti fino a dodici anni e che sua madre era morta l'anno scorso. E queste erano le bugie.
David, d'altro canto, non era timido quanto lei ed era evidentemente abituato a trascorrere serate in discoteca a far baldoria con i propri amici.
«Eccoli lì.»
«I miei, invece, dovrebbero essere da quelle parti.»
«Sul serio il tuo cane si chiama David?» chiese lui con un sopracciglio alzato.
«Orribile vero?» rispose lei spostando una ciocca dietro l'orecchio «cioè intendevo dire per un cane, non per un umano.»
Le sue guance iniziarono a farsi colorite. I suoi occhi lucidi.
«Fino a quando resti a Wilmington?»
«Ancora una settimana.»
Bugiarda, erano quattro. Poi sarebbe partita per tornare al suo pianeta. All'improvviso, però, non sapeva se fosse ciò che realmente desiderava.
«Noi ci fermiamo quattro settimane», rispose lui «poi torniamo a New Orleans.»
«Avevi detto che eri di Chicago!» esclamò lei, pensando di averlo smascherato.
«Ed è la verità.» ribatté lui «Ci siamo trasferiti a New Orleans cinque anni fa.»
Lizzy assunse un'aria corrucciata. Non amava parlare molto con gli sconosciuti e ancora meno con gli sconosciuti bugiardi. Lei poteva mentire, naturalmente.
Lui le raccontò che sarebbe voluto diventare un medico e salvare la vita ai bambini malati di cancro.
Lei che desiderava diventare una stella, viaggiare e visitare ogni luogo del suo mondo ed essere libera. E queste erano le verità.
Essere un'aliena, oltre la spiacevole sensazione che si prova nell'arrossire raccontando la verità, aveva anche dei lati positivi. Non ci si ammalava. Non ci si feriva e non ci si innamorava. Sul suo pianeta infatti l'amore non esiste e le persone non si accoppiano di certo come aveva letto succedere sulla terra. Sul suo pianeta non si soffriva per un altro individuo e non si provavano emozioni legate a tutto ciò che non possa essere rapportato esclusivamente a se stessi. Il suo pianeta era migliore da questo punto di vista pensò eppure in quel momento si sentiva confusa. Eccitata. Qualcosa nel suo corpo le stava mandando segnali diversi da ciò che il cervello comandava.
"Dopamina e noradrenalina al minimo."
Tutto ciò che desiderava nel preciso istante in cui la musica si spense, le luci smisero di lampeggiare e le persone scomparivano, era che David non andasse via. Che le prendesse la mano. Avrebbe voluto provare il sapore delle sue labbra. Avrebbe voluto sentirsi finalmente parte di questo pianeta che da sempre la stava studiando, analizzando e maltrattando. Desiderava, ora che tutto era freddo e buio, sentire il calore di una persona entrarle dentro. Nel cervello e nel corpo per risplendere insieme di luce. Piangeva dentro di se e sorrideva all'esterno. Stava succedendo e lei era pronta. Lo era da anni ma prima di andare avrebbe voluto sentirsi, per una volta, amata. Non sapeva cosa fosse l'amore ma "Dio" quanto avrebbe voluto scoprirlo quella sera.
"Non risponde."
«David, tu sai cos'è l'amore?»
«No, Pam. E mi dispiace averti mentito: mi chiamo Travis.»
«Molto piacere Travis.» Sorrise. «Io sono Elizabeth.»
"Esperimento E628 fallito. Ricominciamo."